Architettura e Storia delle Porte di Palermo
Dal punto di vista strutturale ed architettonico, le soluzioni costruttive sperimentate negli organismi d’epoca normanna si omologavano nell’assoluto rigore stereotomico della pietra da taglio e nella peculiare composizione del fornice, decorativamente impostata su due piani, con doppio arco: il maggiore a sesto acuto, all’interno del quale, con bell’effetto volumetrico e chiaroscurale, s’incassava il secondo arco a sesto ribassato; nella lunetta interclusa fra le due arcature erano affrescate immagini sacre.
Al XV secolo appartengono altri varchi: a margine della punta meridionale della cala, cinta dagli aragonesi di una muraglia, sorse intorno al 1445, in dimesso aspetto, la Porta del Molo per dar passaggio ai frumenti che giungevano per mare, all’inizio della curvatura dell’arco della cala, all’altezza della chiesa di Portosalvo, s’aprì la Porta della Pescheria, l’unica che presentasse un fornice a culmine timpaniforme impostato su colonne a fascio (attestata dal 1470, ma certo di fabbrica anteriore e in quell’anno abbellita di marmi; fu chiusa poi nel 1596); all’altro capo della città, nel sito dell’odierna Porta Nuova, venne eretta intorno al 1470 la Porta dell’Aquila, di modesto e semplice fornice sormontato dall’emblema aviomorfo di Palermo, la medesima per la quale fece solenne ingresso nel 1535 l’imperatore Carlo V, reduce dalla vittoriosa impresa di Tunisi.
Per quasi cinque secoli, dalla conquista normanna alla piena età ispanica, inalterata rimase – astrazion fatta dall’apertura dei nuovi varchi e dai restauri o rifacimenti condotti in età aragonese – la tradizionale cortina muraria che costituiva il limite perimetrale della città.
Se però al suo interno cristallizzate rimanevano le dimensioni urbane di Palermo, un radicale ammodernamento s’operò nei decenni a cavallo della metà del Cinquecento nel corpo della cinta urbica, per effetto delle esigenze militari maturate a seguito della diffusione dell’artiglieria.
A partire dal 1537 e fin verso il 1572 una solida copertura di bastioni venne a costruirsi lungo la cortina muraria; in questa altra varchi s’aprirono: li vediamo tutti proliferare intorno all’insenatura della cala o accrescersi monumentalmente negli opposti vertici civici, a manifestazione d’una città che esaltava la propria tensione urbanistica lungo l’asse del Cassaro, dal mare alla campagna occidentale.
E, come si conveniva alla capitale del Viceregno, proprio alle due estremità del rettifilo nel quale s’incardinavano le funzioni eminenti della vita collettiva, queste Porte ebbero magniloquente e vibrante espressione formale: nel 1569, nel sito della Porta dell’Aquila, sorse il primo ordine della Porta Nuova, che nel 1583 venne elevato fino all’imponente cuspide piramidale; nel 1582, dall’altra parte della strada del Cassaro, di fronte al mare, fu posta la prima pietra della Porta Felice, un organismo che decorativamente introduceva lo schema fin allora inusuale dei due piloni indipendenti, i cui lavori vennero però subito sospesi per essere ripresi nel 1603 e lentamente proseguiti fino al loro compimento nel 1637.
Scenograficamente eminenti sul paesaggio urbano in funzione di quinta prospettica, i due edifici, espressione di una cultura figurativa eclettica e recettizia, vennero a interpretare, con le loro morfologiche sonorità, con l’esasperazione spaziale dei volumi e l’altisonante lessico stilistico, un periodo di aulico rinnovamento urbanistico – architettonico della città, che la felice fase ispano – asburgica stimolava.
Porta Felice fu in realtà, si è detto, opera venuta a concretizzarsi verso il primo quarantennio del Seicento: restava Porta Nuova, nel tardo Cinquecento, a esprimere con la sua solare magnificenza il gusto architettonico del tempo e le epiche risonanze del momento espansivo del Viceregno.
Questa Porta era stata voluta dal Senato civico a cardine estremo della strada del Cassaro, che allora andava rettificandosi ed ampliandosi, e due architetti della vaglia di Giorgio di Faccio e Giuseppe Giacalone (la notizia è finora ignota e frutto di nostre recenti ricerche d’archivio) progettarono ed eseguirono fra il 1569 ed il 1570 il primo ordine, diversissimo e stilisticamente dissonante nelle due facce: realizzato in guisa di arco trionfale nel prospetto interno alla città, frigidamente geometrizzato da piatte ed altissime lesene che incastonano l’immenso fornice; corposamente esaltato con dialettale tensione scultorea e accesa fantasia nel paramento esterno, in cui idioma artistico della Maniera e indigena genialità realizzarono un prodotto dalla capricciosa esuberanza plastica e lessicale, orchestrata dalla variabile sinfonia dei conci bugnati, esasperata dai bizzarri mascheroni a grottesca, culminata dalla patetica eminenza delle due coppie di mori vinti e sconfitti, modellati nella pietra tufacea in funzione di telamoni ai lati del rigoglioso fornice, memento e celebrazione dei trionfi africani di Carlo V.
Il vicerè Colonna, negli anni 1583 – 1584, fece il resto, con spiccato senso d’aulicità, che l’architetto regio Giovanni Antonio Salamone (altro nome ora emerso dall’oscurità) adeguatamente interpretò.
Tanto maestosa parve e insigne quella Porta, che, con ammirato ed enfatico sentimento, poterono i contemporanei dirla “la più bella non solo dell’Italia, ma anco di tutto il mondo” (Valerio Rosso).
Le altre Porte Civiche costruite nel Cinquecento nella cortina muraria che circoscriveva l’insenatura della cala espressero per lo più i limiti della loro funzione utilitaristica: così la Porta di Piedigrotta, fabbricata in forma quadrata e in rustica pietra nel 1585 per consentire il transito dei fedeli verso la chiesa di Piedigrotta, ora distrutta; la Porta della Calcina, così chiamata perchè vi si vendevano la calce a la sabbia per le costruzioni, aperta fra il 1558 e il 1590 dirimpetto all’attuale piazza della Fonderia, costituita da un semplice fornice con arco a pieno sesto girato nell’estradosso in pietra da taglio e contenuto fra due lesene sormontate da una sobria cornice; la Porta Carbone, dal 1590, che ebbe tal nome perchè vi si vendevano il carbone e la legna che giungevano per mare, costituita da due tozzi pilastri in pietra da taglio a liste bugnate, sormontati da un sottile architrave.
Più evoluta morfologia e stilistica ridondanza espresse la Porta della Dogana, edificata nel 1520 di lato alla chiesa di S. maria della Catena verso il mare, il cui prospetto, culminato da un frontone a timpano con fregio aquilino, era articolato da moderati preziosismo rinascimentali.
Trasse il nome dalla vicinanza degli uffici e dei magazzini della Regia Dogana e Secrezia di Palermo, e venne classificata, insieme con la Porta Nuova e con Porta dei Greci, come “porta di spedizione”: era, cioè, una delle tre nelle quali potevano effettuarsi le operazioni daziarie di entrata e di uscita delle mercanzie, sebbene ai vettori fosse dato poi di praticare l’immissione o l’estrazione anche attraverso le altre Porte.
Tutta in pietra da taglio, era probabilmente – nell’originario impianto – costituita da un moderato fornice inquadrato fra lineari paraste che s’allungavano fino alla membrata cornice; nel 1628, per iniziativa del vicerè ducadi Alburquerque, ne venne modificato, forse su progetto dell’architetto del Senato, Mariano Smiriglio, sostanzialmente l’apparato, con l’aggiunta dell’ornato frontone d’attico, di numerose mensole a voluta e d’altri ornamenti.
Frattanto, nel 1553, smantellandosi parte delle mura della Kalsa per ampliarsi la città in quel luogo, venne demolita l’antica Porta dei Greci e monumentalmente ricostruita nel sito attuale (odierno Foro Italico).
Mirabilmente espressivo l’esito architettonico della nuova fabbrica: Porta dei Greci ha bell’impianto manieristico, che si articola con vivace effetto plastico – lessicale nel rigoglioso apparato del portale bugnato con arco a tutto sesto, sormontato da una cornice e da un timpano dalle forti membrature, al centro del quale in passato alteramente campeggiava un’aquila regia bicipite.
Il Seicento modifica sostanzialmente il tessuto urbanistico – edilizio della città: proprio all’alba del secolo, con una ardita operazione di sventramenti, nasce la via Maqueda, ortogonale al tradizionale asse del Cassaro. La nuova strada, voluta dal vicerè Bernardino Cardines duca di Maqueda, realizzò nella topografia urbana il concetto della città cruciforme, geometricamente ripartita in quattro parti uguali, e ne tracciò in embrione la futura direzione di crescita; ed ecco, proprio nell’anno 1600, alle due estremità della nuova arteria, sorgere, nel sito dell’attuale piazza Massimo, la Porta Maqueda e, dalla parte opposta, allo sbocco della strada di fronte alla chiesa di S. Antonino, da cui pure l’edificio prese il nome, la Porta di Vicari (intitolata al pretore della città, Francesco del bosco conte di Vicari), praticata quest’ultima alla base di un bastione delle mura civiche e quindi profonda in origine quanto era lo spessore del baluardo.
Ambedue i manufatti ebbero struttura singolarmente modesta, con disadorno fornice a tutto sesto, ma la Porta di Vicari sarà poi abbellita nel prospetto esterno nel 1716 e plasticamente ornata di conci bugnati, leggiadre lesene, timpano spezzato con fregio avioforme.
Di altre Porte ancora Palermo s’accrebbe nel corso del Seicento, in corrispondenza dell’espansione dei rapporti col territorio suburbano. Se la modesta e disadorna Porta dello Scaricatore e del Frumento, realizzata nel 1603 sul braccio meridionale della cala per consentire l’immissione in città delle granaglie provenienti per mare, sostituiva in definitiva la vicina Porta del Molo, che veniva murata in quell’anno, all’esigenza d’istituire nuovi varchi diretti ad assicurare i transiti e le comunicazioni con le contrade occidentali rispondeva la costruzione di altre due Porte, erette con studiato senso del decoro architettonico lungo la cinta muraria: la Porta d’Ossuna e la Porta di Castro, intitolate ai vicerè che le avevano promosse.
La prima sorse nel 1613 su progetto di Mariano Smiriglio nell’omonima piazzetta, a margine dell’attuale corso Alberto Amedeo, in misurato ed elegante impianto figurativo d’impronta timidamente baroccheggiante, ornata di snelli decori, di statue, lesene, cornici, che inquadravano il composto arco a pieno sesto dominato da una lunetta fregiata di aquila e scudi araldici.
L’altra sorse nel 1620 sul lato meridionale del palazzo reale (nell’attuale via del Bastione, di fronte alla villa d’Orléans), in caratteri spiccatamente manieristici, che si esaltavano nel vibrante paramento plastico – chiaroscurale realizzato in conci bicromi alternati fino all’ampia fascia d’attico, impreziosita del ricorrente corredo d’aquila a volo spiegato e scudi araldici.
Una consimile tensione manieristica s’esprimeva nella Porta Montalto, intitolata al vicerè Luigi Moncada duca di Montalto, edificata nel 1638 su progetto del celebre matematico Carlo Ventimiglia a lato della Porta Mazara, per essere questa divenuta impraticabile a seguito della costruzione nel 1569 dell’omonimo bastione; fu prodotto qualificato d’una equilibrata commistione di moduli manieristici e barocchi, insieme armonizzati: sul fornice a tutto sesto, gradevolmente articolato da un vibrante bugnato a punte di diamante, s’elevava un baroccheggiante frontone fiancheggiato da mensole a volute e ornato d’aquile e stemmi.
L’anno prima s’era frattanto portata a compimento, come s’è detto, la realizzazione di Porta Felice, monumentale manifestazione di una esigenza di fasto e decoro civico che s’esprimeva nella solenne morfologia architettonica dei due distinti piloni, trasparenti di estroverse aggettivazioni metriche e di rigogliose scansioni formali e d’ornato nei prospetti esterni (nicchie con statue incassate fra colonne, fontane, grandi aquile ad ali spiegate), colmi di rinascimentale compostezza nei prospetti interni, modulati dal geometrico alternarsi di finestre timpanate, lesene, architravi, cornici dalle forti membrature.
Fu fastoso progetto di mariano Smiriglio, architetto del Senato civico, che ne diresse gli estenuanti lavori (1603 – 1637) finchè fu in vita, portati a compimento, ma solo per alcune opere finali e di ornamentazione, da Pietro Novelli e poi da Vincenzo Tedeschi.
Abbandonato il tradizionale sistema della porta a fornice, il progettista sperimentò la soluzione dei due grandi piloni affrontati con funzione decorativa e d’introduzione all’ambiente cittadino; l’effetto monumentale e scenografico dell’edificio fu “felice”, alla stregua della denominazione della Porta, intitolata a donna Felice Orsini, moglie del vicerè Colonna che l’aveva promossa: sul primo massiccio ordine, di classica e composta gravità strutturale ed ornamentale nel fronte rivolto verso la città, vibrante d’aggetti e di decori nel prospetto esterno, si eleva il nervoso secondo ordine, armonizzato alla rinascimentale euritmia della parte basamentale nella facciata che guarda il Cassaro.
Altri interventi si condussero in prosieguo di tempo nelle Porte civiche, in conformità ad una ideologia che ne vedeva sempre meno la funzione utilitaristica nell’apparato difensivo della città e sempre più indulgeva ad una prospettiva d’arredo scenografico.
Così, nel 1660 s’ornò la Porta di Termini d’una magniloquente ornamentazione ridondante di barocchi turgori; non la Porta, veramente, che conservò la disadorna semplicità del suo fornice incassato fra due coppie di colonne, ma sopra di essa si realizzò, dalla parte interna alla città, un grandioso apparato prospettico a servizio della chiesa della Compagnia della Pace, a più ordini, con balconi, finestre, nicchie adorne di statue, scompartito da lesene, cornici, festoni, sormontato da un articolato frontone a volute.
Negli anni 1668 – 1669, poi, dovette ricostruirsi dalle basi la Porta Nuova, saltata in aria e rimasta quasi interamente distrutta per la deflagrazione di molti barili di polvere da sparo che si conservavano nelle sue stanze, colpiti il 20 dicembre 1667 da un fulmine (rimase indenne il solo pilone addossato alle fabbriche del palazzo reale): l’edificio risorse fedele nella volumetria e nell’assetto architettonico all’organismo che lo aveva preceduto, per opera di Gaspare Guercio.
Per buona parte del Settecento, sostanzialmente immutato si conservò – se si eccettuano alcuni episodi di espansione edilizia extra moenia lungo le prevalenti direttrici dei Colli e dello stradone di Mezzomonreale, che però non offrivano ancora occasioni di conurbazione alla città – l’assetto topografico di Palermo, chiusa dalla condizionante cerchia muraria.
Nell’intatta cinta urbica le Porte conservavano la funzione di varchi necessari in direzione delle aree suburbane. Venne abbattuta, è vero, nel 1724, la Porta S. Giorgio, ma solo per surrogarle nello stesso anno un più nobile organismo.
Il nuovo edificio, la Porta di S. Rosalia, sorse su progetto di Andrea Palma, architetto del Senato, nell’attuale piazza XIII Vittime, in equilibrate connotazioni barocche; nel prospetto, un articolato giuoco di colonne e di lesene impostate su sobri piedistalli inquadrava l’apertura del fornice, dotato di rosta, esaltandosi nel fastigio della rigogliosa cornice sormontata da una breve balaustrata; al centro di questa, nel secondo ordine, emergeva un’alta edicola timpanata che conteneva un affresco del fiammingo Guglielmo Borremans raffigurante la liberazione di Palermo dalla peste del 1624 ad intercessione di S. Rosalia.
Nel 1763 venne murata la Porta della Calcina, chiusa ormai dal 1684, e fu poi la volta della Porta Maqueda: venne rasa al suolo nel 1766 per essere ricostruita in forma di due distinti piloni, “con stanze al di dentro, senz’arco al di sopra” (Villabianca), ornati di quattro colonne in pietra rustica in ciascuno dei due prospetti, che inquadravano quattro nicchie contenenti i simulacri allegorici in stucco della fedeltà e felicità di Palermo.
Ma il nuovo edificio durò poco, chè, realizzatosi il prolungamento della via Maqueda e settentrione, il pretore Regalmici nel 1780 lo fece abbattere e ricostruire in più maestose proporzioni, sebbene in forma assai simile a quella del precedente organismo; i due grandi piloni furono distanziati sul piano stradale e coronati da una balaustrata in marmo.
Ad altre Porte toccò nel decennio successivo la medesima sorte di cadere per risorgere. Così, nel 1782 venne demolita e ricostruita la Porta Carini, in posizione lievemente più avanzata rispetto al sito del precedente edificio: la soluzione a due piloni distinti, privi di fornice, adottata nel rifacimento, corrispose ad un indirizzo che abbiamo visto maturare nell’urbanistica palermitana, in cui le Porte avevano ormai caratteristiche di ornamentali sovrastrutture della città.
Nel 1789 anche la Porta di Vicari, che chiudeva a meridione la strada Maqueda, venne abbattuta insieme con una parte del baluardo al quale s’addossava e ricostruita in posizione lievemente più avanzata per allinearla al fronte degli edifici che erano venuti sorgendo a ridosso delle mura.
Ebbe struttura a due separati piloni, cui l’architetto del Senato, Pietro Ranieri, conferì leggiadra armonia di neoclassica ispirazione, ornandone i prospetti di colonne tuscaniche che inquadrano, in ciascuna ala, una fontana sormontata da nicchia con sculture allegoriche; agli apici si svolge una elegante balaustrata.
Se le Porte Maqueda, Carini, di Vicari e di S. Rosalia, nel loro settecentesco rifacimento, sostituivano in definitiva organismi preesistenti, prodotto del tutto nuovo fu un altro edificio, la Porta Reale – detta anche Carolina, in onore della regina -, che nel 17834 venne aperta all’incrocio fra l’attuale via N. Cervello e la via Lincoln per dare più agevole accesso alla villa Giulia: se n’era iniziata la costruzione nel 1776, ma ancora nel 1788 essa non era ultimata.
Sotto il profilo architettonico, l’opera risultà di scarso pregio; modestissimo, anzi, l’impianto, che ripeteva l’ormai consueto sistema della struttura a piloni distinti, senza arco, allineati alla cortina edilizia.
Ormai questi organismi, ridotttisi a un ruolo meramente decorativo, avevano fatto il loro tempo; nelle mura valicate dall’espansione urbana, integrati e quasi fagocitati nella struttura edilizia della città, costituivano una molesta presenza, cui il nuovo secolo darà drastico ed impietoso ridimensionamento.
Sotto la pressione delle esigenze urbanistiche che maturavano, caddero nel corso del XIX secolo, insieme con la cinta urbica, molte antiche porte: nel 1800 fu murata la Porta dello Scaricatore, nel 1852 venne demolita la Porta di Termini e intorno a quello stesso anno la Porta della Dogana, nel 1853 fu abbattuta la Porta di S. Rosalia e poco dopo fu la volta degli ultimi avanzi della Porta di S. Agata alla Guilla, nel 1872 venne atterrata Porta D’Ossuna, nel 1875 la Porta Carbone, nel 1877 la Porta Maqueda, nel 1879 la Porta di Castro, infine fra il 1885 ed il 1888 la Porta Montalto; negli stessi anni disparvero gli elementi residui della Porta Rota; corse il rischio persino, nel 1848 (l’anno stesso in cui s’apriva la via Libertà), d’essere rasa al suolo dal Governo rivoluzionario Porta Nuova, che deve all’appassionata opera dell’architetto Carlo Giachery la sua sopravvivenza.
Ultima a cadere sotto il piccone demolitore fu la Porta di Piedigrotta, verso la fine del secolo.