Luigi Pirandello: La Contrada Caos

Da Agrigento si giungeva al caos solo per Villaseta, allora un casale di una cinquantina di abitanti allineati squallidamente sullo stradone, l’aria turbata da un acre odore di mosto che esalava dai fondachi e dalle taverne mescolato al tepore grasso del letame

Luigi Pirandello: La Contrada Caos – di Enzo Lauretta –

Per un breve riassunto leggi: La casa museo di Luigi Pirandello.

Da Agrigento si giungeva al caos solo per Villaseta, allora un casale di una cinquantina di abitanti allineati squallidamente sullo stradone, l’aria turbata da un acre odore di mosto che esalava dai fondachi e dalle taverne mescolato al tepore grasso del letame: da lì un sentieruolo tra i campi portava alle terre del Caos, al vigneto ed all’antico uliveto saraceno, al mandorleto e, giù nell’ampio burrone, all’agrumeto ora scomparso.

Sulla contrada s’alzava qualche tugurio mal ridotto abitato da povera gente, mezzad

ri e fittavoli di fittavoli, afflitta dall’angheria più iniqua al tempo del raccolto. Valsanìa sul mare, una campagna che, d’estate, quando tutte le cose giacciono rinsecchite nella grande calura, sembra quasi emanare un “alito antico, denso”, che si mescola ai “tepori grassi del fimo fermentante in piccoli mucchi sui maggesi, e con le fragranze acute dei mentastri ancor vivi e delle salvie”. Nel “silenzio attonito”, “dietro le spesse siepi di fichidindia”, si potevano sentire strillare “gaje al sole le calandre”, mentre a tratti veniva “dal mare prossimo… il respiro refrigerante… a commuover le foglie stanche dei mandorli, e quelle fitte e cinerulee degli olivi” (Un cavallo nella luna).

La campagna (“il podere” di Scialle nero, la “tenuta” de I vecchi e i giovani) è limitata a mezzogiorno da un “ciglione”, dal quale si apre “la magnifica vista della spiaggia sottostante all’altopiano, fino al mare laggiù”, e più oltre “la riviera lontana che s’incurvava appena a lievi lunate” (Scialle nero).

Accanto al “ripido burrone ampio e profondo, detto il vallone”, correva un “lungo diritto viale”, proprio sul “ciglio”; da lì precipita Eleonora “tra il verde della spiaggia sottostante”, mucchio di vesti nere, con lo scialle nero lì accanto, sotto lo sguardo atterrito di Gerlando.

In certe notti lunari, specialmente quando splendono “limpide le stelle maggiori”, la campagna acquista le tinte d’un paesaggio favoloso: allora è straordinariamente dolce starsene sul “terrazzo” che sembra diventare il “cassero d’una nave” (Ritorno) oppure prendere una “seggiola” e “sedere al balcone” per “guardare tutt’intorno dall’alto l’aperta campagna declinante al mare” sul quale la luna accende “una fervida fascia d’argento” mentre dai “vasti piani gialli di stoppa” si leva “il canto dei grilli” (Scialle nero).

Questo continuo “scampanellio” di grilli, scandito a tratti dal verso “accorante” dell’assiolo; il sentiero tra gli olivi, i cespugli di mentastro, le siepi di fichidindia, i radi alberi di gelso, le felci, il burrone profondo, l’altopiano di argille, il respiro del mare e quel pino solitario e quella casa “Romita”: ecco la contrada dove Luigi Pirandello prese bruscamente contatto col mondo, il Caos, forse dal greco Kaos, come spiega lui stesso, e comunque chiamato in dialetto girgentano ancor oggi “u Causu” oppure “u Cavusu”.

Più tardi avrebbe detto: “Io dunque sono figli odel caos; e non allegoricamente”, con un intellettualistico compiacimento tipicamente girgentino per la concorrenza di tante circostanze eccezionali: la “morìa” causata dal “terribile colera” che in quell’anno infuriava in Sicilia; il drammatico evento del parto prematuro (uno spavento); il nome misterioso della contrada.

La sua storia ha inizio come nelle favole ricordate nel lievitare della fantasia e nella dolorosa meditazione dell’esistenza, in un’atmosfera quasi rarefatta e senza tempo, dove soltanto la natura ed i suoi fatti hanno uno spessore inconfondibile e tutto il resto è privo di contorni, senza per questo essere sbiadito, ma solo smarginato e liberato dalle cose comuni e dal dato quotidiano.

Fu di notte, una notte di giugno. Si sa che nelle favole l’anno non ha importanza: basterà dire che si pativa, “in quell’anno”, una “grande moria”.

La straordinaria notizia è fornita dallo scrittore in fogliettini di rapidi appunti e nelle due stesure di un esordio destinato a dare informazioni sul suo “involontario soggiorno sulla Terra”.

Il tono, che diviene drammaticamente filosofico alla fine, possiede all’inizio il raro sapore che hanno le fiabe: l’utilizzazione dell’articolo indeterminativo (“una notte di giugno”, “come una lucciola”, “un gran pino solitario”, “una città”, “una grande moria”, “un mio zio”) crea un particolare “clima”, potentemente arricchito dall’uso del vergo all’imperfetto o al passato remoto (“caddi”, “dov’era”, “s’era preso”, “s’era rifugiata”, “andava con un lanternino”, “s’era ajutata”, “era nato”, “fu segnato”).

In questa remota atmosfera è collocato il luogo assolutamente reale, per la puntuale attenzione ai particolari, ma nello stesso tempo così incredibile, sicché ad esempio: la campagna “d’olivi saraceni che si affaccia agli orli d’un altipiano d’argille azzurre sul mare africano”, perchè i suoi precisi connotati quando più oltre è segnata come “quella solitaria campagna lontana”; e il colle dove siede Girgenti diventa “un colle dov’era una città”: il dato topografico esatto ed ormai familiare della cittadina adagiata sul colle è subito sfumato dall’indeterminativo, dall’imperfetto, mentre il nome è volutamente dimenticato, come del resto l’anno di nascita.

E poi c’è la metafora delle lucciole che ogni tanto cadono e fanno indovinare il loro baluginare come “un verde sospiro di luce in terra”, uno “sprazzo verde” che a tratti fa rabbrividire la notte che “il suo nero, sembra lo faccia per esse”.

Il taglio da novella delle fate è spiegato e raggelato verso la fine dell’esordio con la considerazione circa il mistero della nascita naturale “che dura ancora un pezzo dopo che s’è nati” fino a che non si prende coscienza della solitudine della propria vita, anche se tale coscienza “terribile” si acquista intera soltanto sul punto di morire.

Non soltanto per il disprezzo e la pena insieme che ha della forma, per la scarsa considerazione dell’uomo (“tra le bestie è la più brutta, la più matta e infelice”) avrebbe preferito intanto non nascere in questo “affliggente mondo”, e comunque nascere, che so? albero.

“…una notte di giugno caddi come una lucciola sotto un gran pino solitario in una campagna d’olivi saraceni affacciata agli orli d’un altipiano d’argille azzurre sul mare africano”.

Era il 28 giugno 1867. Quel gran piano solitario e quella “romita” casa di campagna rimasero degli elementi fortemente segnati nella storia di Pirandello che sotto quel pino volle finissero raccolte le sue ceneri, mentre mai riuscì a togliersi dalla mente e dal cuore quella casa dove ritornava quasi ogni anno, almeno fino al ’22, a pensare, a dipingere, a riposarsi, a scrivere agli amici; dove si davano appuntamento le memorie e gli affetti, collegata com’era al momento in cui come una lucciola era caduto su quel punto della terra.

La campagna esaltata come “natia”, “area su l’altipiano d’azzurre argille” che ricevono il sollecito e sommesso messaggio dl “mare aspro africano” comprende, come parte essenziale di essa, quella piccola casa solitaria che da lontano Pirandello confessa di vedere sempre, specialmente se pensa al punto breve in cui la sua vita s’aprì all’immensità e vanità del mondo.

E gli piace ogni volta ritornare a quel sentiero tra gli ulivi da dove era incominciata la sua odissea di uomo “ignaro e franco” da, dopo aver tanto camminato amare ricondursi “deluso e stanco”, a quel profumo di mentastro e di salvie, di cui sembra esaltarsi la campagna.

Da lontano, come vagabondo con poco bagaglio per le vie della terra, quella casa solitaria posta quasi sull’orlo della spaccatura dell’altopiano continuava ad esercitare una forte attrazione anche sulla sua fantasia: gli piaceva immaginare i rumori della vicina “marina”, lo strillo delle cicale “su l’arso lido” o tra “le cataste di zolfo”, la calma lunare del golfo, il faro che s’accendeva a intermittenza, il salpare lento delle navi… Il mare, i campi, i grilli o le cicale, la calma notte lunare, la casa “antica” col suo terrazzo sulla parte sud, proteso verso il Mediterraneo come il “cassero d’una nave”, allietata un tempo dalla prosperità e dalla fortuna.

Da lì, ragazzo, era solito affacciarsi e contemplare a lungo il mare sconfinato d’un aspro azzurro da Punta Bianca, a levante, simile ad uno sprone d’argento, fino a Monte rossello a ponente; e proprio nel mezzo della “dolce amplissima curva, la riviera interrotta dalla foce dell’Hypsas”, i tramonti di fiamma e oro lasciavano trasparire “in un fantastico frastaglio tra il verde intenso degli alberi” le terre che scendono minacciose sulla vecchia linea ferroviaria che sbuca fuori dal traforo sotto il Caos per giungere fino a Porto empedocle allora “giallo di zolfo, bianco di marna”.

E dalla solitudine immobile del cassero di quella nave, sulla desolazione di quelle estreme contrade dell’Isola, poteva contemplare, “nei resti miserevoli della sua antichissima vita raccolti lassù, la città di Girgenti che gli appariva “silenziosa e attonita superstite nel vuoto di un tempo senza vicende, nell’abbandono di una miseria senza riparo”.

Più tardi, in una delle rare lettere ai suoi cari e al padre, scritta dalla Germania il 24 aprile 1890, avrebbe confessato di non aspirare ad altro che a ritirarsi “in un luogo quieto, a vita solitaria”, coi libri e i suoi pensieri: “Sì, miei cari, ne ho già troppo di questa vuota e insulsa commedia del mondo esteriore, di questa continua successione di stupide apparenze.

Se io avessi tanto da soddisfare ai miei più stretti bisogni e non dovessi rendere infelice alcuna persona per tale mia decisione, io vorrei ritirarmi a vivere completamente solo in codesta villa natale, per intendere unicamente a quel lavoro, per cui son nato”.

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